domenica 19 agosto 2012

Kushiel's Chosen

   Se c'è una cosa che amo di Jacqueline Carey, è come riesca a inserire nei suoi libri messaggi per nulla banali e riflessioni colte pur rimanendo nell'ambito della narrativa popolare. Kushiel's Chosen, secondo capitolo della serie Kushiel's Legacy, non fa che riconfermare tutto ciò.
   Il libro prende il via direttamente dal mistero lasciato in sospeso dal precedente Kushiel's Dart, ossia la scomparsa di Melisande Sharizai e la natura della sfida lanciata a Phédre simboleggiata dal mantello color sangoire che la protagonista credeva perduto. La prima parte non si discosta molto da quella corrispondente del primo libro: Phédre di dedica nuovamente al servizio di Naamah e ritorna a utilizzare le sue abilità erotiche per risolvere l'enigma, che anche in questo caso, tra miriadi di nomi che molto spesso non vengono nemmeno associati a un personaggio che compare nell'azione, è fin troppo complicato.
   Le sue doti di cortigiana però non bastano e si vede costretta a viaggiare alla Serenissima, corrispondente kushieliano della nostra Venezia, che si rivelerà un covo di vipere molto peggiore della corte della Città di Elua. Il mistero di Melisande viene risolto con un colpo di scena molto ben piazzato, che metterà in moto nuovi avvenimenti che porteranno Phèdre fino alla lontana isola di Kriti.

   Kushiel's Chosen offre un'ambientazione più ampia rispetto al suo predecessore: come già detto abbiamo La Serenissima, che non può che ricordarci con piacere Venezia, le coste dell'Illyria (controparte della Dalmazia), e Kriti, cioè Creta. Ancor più che in Kushiel's Dart si capisce la passione dell'autrice per i viaggi:  i luoghi descritti sono assolutamente vividi e reali, tanto più dato il fatto che sono tutti basati su posti esistenti. Il discorso però non si ferma qui, perché la Carey dimostra una cultura non indifferente quando va ad arricchirli di tutti i dettagli delle loro controparti reali. Così a La Serenissima abbiamo la città divisa in sestieri, nell'Illyria troviamo diverse creature folkloristiche che popolano i territori balcanici, e a Kriti ci viene proposto un assaggio dei misteri dionisiaci e della mitologia minoica. La Carey non si limita solo a prendere nomi a caso, quindi, ma si documenta approfonditamente su tutto ciò che ci sta dietro.
   Vale lo stesso per le tematiche religiose: Asherath è basata sulla vera divinità cananea Asherah, e la storia del suo dolore nato dalla morte del figlio Eshmun è un'importante parte della trama. Il voto che Phèdre le offre dopo essere scampata indenne dalla prigione della Dolorosa riesce a rappresentare un senso del sacro in maniera vivida, nonché a condurre astutamente al gran finale al tempio della dea in cui Phèdre fa le veci dell'oracolo con un'intuizione geniale. Per niente scontate anche le rivelazioni sulla natura da anguissette di Phédre: è una creatura destinata a prendersi carico del dolore (ad amare il dolore) in modo che nel mondo ci sia un equilibrio. E' proprio vero che la giustizia di Kushiel è crudele.
  Niente di nuovo da dire sui personaggi, buonissimi come nel volume predecente, se non che Melisande continua a risplendere tra tutti come una delle migliori villainess mai rappresentate. Persino quando non entra in scena la sua presenza di sente, vuoi perché gli eventi della trama sono sempre messi in moto dal suo genio machiavellico, vuoi perché il suo rapporto con Phèdre è unico: nemiche mortali, nemesi l'una dell'altra, ma nonostante tutto c'è un filo d'amore che continua a tenerle legate e di cui sono perfettamente consapevoli. Forse, dopotutto, sono due facce estremamente diverse di un'unica medaglia. Senza contare che le loro battles of wits sono impareggiabili.
   Qualche riserva per Joscelin, il cui comportamento finisce per risultare snervante, seppure perfettamente in linea con la storia d'amore totalmente paradossale con Phédre. Fortunatamente la Carey sa quando il troppo è troppo, e fa uscire di scena Joscelin al momento giusto per riportarlo nella storia con un atteggiamento totalmente diverso.
   Sempre positivo il giudizio sulla scrittura dell'autrice: eloquente, suadente, elegante, spesso barocca nei giri di parole e negli orpelli linguistici, senza mai scadere nel gratuito o nel pacchiano. Non è impresa da pochi.

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