martedì 29 aprile 2014

The Book of Lost Tales (J. R. R. Tolkien)

   I due volumi del Book of Lost Tales sono i primi nella serie The History of Middle-earth, una collana di ben dodici volumi in cui Christopher Tolkien raccoglie e analizza materiale non pubblicato, appunti e storie lasciate incompiute da parte di suo padre.
   The Book of Lost Tales non è che una sorta di proto-Silmarillion, la primissima versione di quella cosmogonia che Tolkien avrebbe continuato a limare e rimaneggiare fino alla sua morte. Il primo volume documenta (in modo molto più dettagliato rispetto alla versione "finale" del Silmarillion) la creazione di Arda, dalla musica degli Ainur fino alla creazione di Kôr (versione primitiva di Tirion), e prosegue con la distruzione degli alberi da parte di Melko(r), la fuga dei Noldoli (Noldor) e l'occultamento di Valinor.
   Il tutto è presentato sotto forma di storia raccontata all'interno di un racconto cornice: il protagonista è Eriol/Ælfwine, un marinaio inglese che giunge a Tol Eressëa al "Cottage of Lost Play" ("la casetta del gioco perduto", uno dei nomi più poetici ed evocativi che mi sia mai capitato di sentire), nel quale gli elfi gli raccontano di Eru e della creazione del mondo.
 Ciò che colpisce di più in questi racconti è il livello di dettaglio e immaginazione che Tolkien immette nella pagina, sintomo di una fantasia sfrenata e di una passione totale per il mondo da lui creato. Ci sono dettagli fantastici che scompariranno del tutto negli scritti successivi, come diversi Valar aggiuntivi (Makar, Measse, Omar), la descrizione minuziosa delle aule dei Valar della morte, il lunghissimo racconto della creazione del Sole e della Luna (il cosiddetto Narsilion).
   Se le minuzie riguardanti la creazione di Arda abbondano, risultano invece ancora abbozzate le storie dei Noldor e i loro protagonisti. La complessa genealogia che Tolkien svilupperà è qui assente, e sono ancora confuse le relazioni esatte tra i protagonisti. Gli stessi Silmarilli, che nel Silmarillion saranno il motore catalizzante dell'intera vicenda, e perno del destino di Arda, hanno qui una funzione marginale, e non rappresentano ancora la materializzazione della santità di Valinor che avranno in seguito (esemplare, a tal proposito, il riferimento al fatto che il Silmaril finito nelle mani di Melko sia stato irrimediabilmente corrotto dal suo tocco, mentre nel Silmarillion lui non può nemmeno toccare il sacro gioiello).
  Nel secondo volume sono presenti le grandi storie epiche che avrebbero benissimo potuto meritare dei romanzi a sé stanti: il racconto di Tinúviel (Beren e Lúthien), la storia di Turambar, la caduta di Gondolin, la storia della Nauglafring (la collana dei nani) e il racconto di Eärendel. Rispetto al primo volume, qui cede il forte aspetto di potenza visiva che caratterizzava il primo. Pur se il dettaglio è sempre maggior che nella versione pubblicata nel Silmarillion, manca quel senso di coesione che collega le storie l'una all'altra e che andrà a formare un solo, potente fiume di epicità.
   L'intero Book of Lost Tales è scritto in un inglese arcaico, tanto affascinante quanto ostico e prosaico. Tutto, a partire dai dettagli e dal linguaggio, verrà snellito nelle versioni successive, mentre si andrà ad aggiungere quella fitta rete di connessioni e di personaggi che unisce una storia all'altra. Ad ogni racconto segue un corposo commento di Christopher Tolkien che illustra come si sarebbe evoluto il racconto in questione nel corso del tempo, completo di dettagli sulla nomenclatura, sulla collocazione temporale del testo e sulla natura stessa dei manoscritti originali.
   Come dare un voto complessivo alla raccolta? E' difficile. Senza dubbio le storie sono una testimonianza fondamentale del genio del loro creatore, nonché un certosino lavoro di ricostruzione filologica, ma viene da chiedersi se tutto il materiale pubblicato meritasse effettivamente di vedere la luce. Se da una parte alcuni dei racconti fanno rimpiangere che Tolkien li abbia abbandonati o pesantemente rimaneggiati (l'intera cornice al Cottage of Lost Play, i minuziosi dettagli su Valinor e sui Valar), altri non sono altro che miseri stralci di idee appena buttate su carta (la storia di Gilfanon, quella di Eärendel e il racconto finale che avrebbe dovuto collegare la storia di Valinor con il nostro mondo, spiegando così l'origine delle fate). Christopher Tolkien nutre senza dubbio un amore folle per l'eredità lasciata dal padre, ma tende a farsi prendere troppo la mano.
   Si tratta in definitiva di un lavoro senza dubbio affascinante, una manna dal cielo per i fan di  Tolkien, ma che avrebbe forse richiesto un maggior lavoro di compressione e scrematura nelle parti meno "compiute".

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